Strettamente collegata alla prospettazione triadica della libertà di informazione come diritto di informare, diritto ad informarsi e diritto ad essere informati è la messa a fuoco del concetto di pluralismo informativo così come è venuto declinandosi nelle diverse pronunce della Corte Costituzionale degli ultimi trent’anni. Va detto fin d’ora che la concezione di pluralismo che emerge dalla giurisprudenza della Consulta, lungi dall’essere meramente “quantitativa”, è soprattutto “qualitativa”: ai fini del pluralismo, non bisogna tanto valutare il numero di voci (possono essere tante, ma dar vita a un coro omogeneo), ma la diversità delle voci. La diffusione delle nuove tecnologie non necessariamente si traduce in effettivo pluralismo se al pluralismo dei programmi non corrisponde un pluralismo di idee e opinioni.
Il tema del pluralismo, soprattutto in relazione alla proprietà e alla gestione dei media, ha assunto rilevanza crescente nel nostro Paese, anche in considerazione delle particolari contingenze storico-politiche, arrivando a lambire perfino il tema epocale dell’essenza stessa del principio democratico.
La riprova di ciò è data dal fatto che il compianto ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, decise di fare ricorso allo strumento del messaggio formale, disciplinato dall’art. 87, comma 2 della Costituzione, per attribuire un rilievo solenne ai concetti di pluralismo e imparzialità dei media, considerati fondamentali per la realizzazione di una democrazia compiuta.
I contenuti delle sentenze della Consulta in materia di pluralismo radiotelevisivo, con gli opportuni riferimenti alle direttive europee e alla Carta di Nizza, rappresentarono il punto di partenza della profonda riflessione compiuta dall’ex Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, con il messaggio del 23 luglio 2002. Ciampi, premettendo che «il pluralismo e l’imparzialità dell’informazione non potranno essere conseguenza automatica del progresso tecnologico» e che «saranno, quindi, necessarie nuove politiche pubbliche per guidare questo imponente processo di trasformazione», auspicava «l’emanazione di una legge di sistema, intesa a regolare l’intera materia delle comunicazioni, delle radiotelediffusioni, dell’editoria di giornali e periodici e dei rapporti tra questi mezzi». In definitiva, Ciampi sollecita l’attuazione delle direttive comunitarie in materia di pluralismo attraverso un’accurata, ponderata e partecipata azione legislativa e auspica la definizione di un quadro normativo per l’attivazione della competenza concorrente delle Regioni nel settore delle comunicazioni.
Ponendo lungo il medesimo asse virtuoso i concetti di pluralismo e di libertà d’informazione, possiamo evidenziare alcune delle più allarmanti criticità che di fatto ostacolano in Italia (e probabilmente anche in molti altri Stati) l’affermazione dei suddetti principi e suggeriscono al legislatore correttivi all’attuale assetto normativo.
Anzitutto bisognerebbe interrogarsi sulla possibilità di favorire maggiormente la libertà degli editori. In Italia non esistono editori puri, cioè soggetti imprenditoriali che operino esclusivamente nel campo editoriale e che non abbiano interessi in altri campi socio-economici e politici. I principali editori italiani sono impegnati in politica o nei settori economico-produttivi più importanti (da quello dell’edilizia a quello energetico) e le partecipazioni azionarie dei più importanti media italiani sono saldamente nelle mani delle banche o di altri soggetti facenti capo a precise e identificabili lobby economico-finanziarie. Tali grumi di interessi extra-editoriali finiscono per condizionare fortemente le linee editoriali dei principali media. A cascata, questa situazione di «colonialismo editoriale» da parte di poteri non sempre trasparenti determina sovente una menomazione di altre libertà, in primis quella dei direttori delle testate giornalistiche, scelti dal potere politico o dalla proprietà sulla base di valutazioni non sempre conformi a criteri di professionalità, nonostante essi, in quanto giornalisti, siano chiamati a rispettare anzitutto la loro deontologia professionale. Problematici anche i profili di libertà dei giornalisti, stretti in una rete di condizionamenti dettati dalle commistioni tra interessi a volte opachi e dalla confusione tra pubblicità e informazione, con gli inserzionisti sempre più influenti sulle scelte editoriali. Infine il pubblico, disorientato da una vera e propria overdose informativa che tende a saturare gli spazi dell’attenzione e del discernimento, e quindi sempre meno libero di valutare i contenuti delle notizie e dei commenti.
Sarebbe forse opportuno, al di là di auspicabili interventi normativi di contrasto delle situazioni appena descritte, ipotizzare l’introduzione, nelle redazioni, di figure di garanzia come quelle presenti in alcuni quotidiani americani. Ci riferiamo al public editor, chiamato in alcuni casi ombudsman, in altri readers editor, soggetto indipendente dal giornale che lo ospita e lo stipendia e che riceve il mandato di vigilare che la testata segua principi deontologici di trasparenza e neutralità, quali la correttezza di ciò che viene riportato, l’assenza di conflitti di interessi, le eventuali violazioni e omissioni rispetto a tali principi. Il tutto a garanzia del diritto del cittadino ad essere informato correttamente, senza manipolazioni e senza interessi subdoli e a lui ignoti.
Tutte queste considerazioni sul deficit di pluralismo e di trasparenza nel panorama editoriale italiano sembrano riproporsi, quando non amplificarsi, nella Rete. Internet, da molti considerato un ambiente di potenziale ampliamento degli spazi di pluralismo, rischia di riprodurre nuove posizioni dominanti, come quelle di alcuni motori di ricerca nel settore della raccolta pubblicitaria. Inoltre, la carenza di regole giuridiche e deontologiche applicabili on-line sta finendo col penalizzare l’industria editoriale tradizionale, che pure ha sostenuto negli ultimi anni ingenti investimenti per realizzare processi di integrazione multimediale e che corre seriamente il pericolo, in mancanza di accordi di sistema, di dover smontare i suoi consolidati modelli di business, al fine di non rimanere “stritolata” in una filiera di remunerazione dell’opera creativa a carattere editoriale sempre più sbilanciata in favore dei cosiddetti Over the top (Ott).