Con l’obiettivo di stilare un catalogo di donne single e “appetibili”, l’imputato ha utilizzato Facebook per estrapolare una serie di profili femminili, che ha pubblicato all’interno del proprio sito web. Il tutto senza il consenso delle dirette interessate, che in seguito hanno ricevuto molestie, minacce, ricatti ed insulti da parte di sconosciuti.
Il responsabile è stato condannato, in primo ed in secondo grado, per i reati di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa e trattamento illecito di dati personali (previsti dagli articoli 595, comma 3 codice penale e 167 del Codice della privacy). Una condanna confermata dalla Suprema Corte, che ha convalidato in toto le decisioni dei giudici.
Nello specifico, la Corte d’Appello di Milano ha riconosciuto la responsabilità penale dell’imputato sottolineando che:
- il catalogo delle donne estrapolato da Facebook costituisce una lesione della dignità, dell’onore e della riservatezza dei soggetti coinvolti;
- l’aver illecitamente prelevato e utilizzato i dati presenti sul social rappresenta una violazione del principio del consenso informato al trattamento dei dati personali, previsto dal Regolamento generale sulla protezione dei dati (GDPR) e dal Codice della privacy;
- si tratta di una diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, in quanto il comportamento ha leso la reputazione delle donne coinvolte attraverso un mezzo idoneo a diffondere la notizia al pubblico.
Il 7 settembre 2023 la sentenza n. 34567 della Corte di Cassazione ha confermato la condanna a un anno e mezzo di reclusione per l’imputato, colpevole dei reati di diffamazione e trattamento illecito di dati personali. Confermato anche il risarcimento di 10 mila euro per il danno subito dalle parti civili, tenendo conto anche del danno morale, biologico ed esistenziale (danno non patrimoniale).
La sentenza della Cassazione ribadisce l’inviolabilità del diritto alla protezione dei dati personali, non sacrificabile per fini commerciali o ludici. La sentenza ci ricorda anche il fondamentale principio di limitazione delle finalità del trattamento, spesso messo in un angolo dalle attività di marketing telefonico indesiderato ed illecito. Il fatto che un soggetto pubblichi un dato, su un social network o su un albo professionale, non costituisce un’autorizzazione; quel dato, anche se pubblico, non puo’ essere sottoposto ad un utilizzo sconsiderato ed indiscriminato.
Il tentativo dell’imputato di discolparsi affermando di non conoscere i principi su cui si basa la normativa del GDPR non ha sortito alcun effetto, poiché l’ignoranza di una disposizione legislativa non costituisce scriminante.
M.M.