Nella cultura dell’odio che impazza in Rete e che nelle ultime ore è stata denunciata con veemenza da Liliana Segre rimangono sullo sfondo le responsabilità del mondo dell’informazione, che invece sono rilevanti e vanno evidenziate.
E’ vero che in Rete scrivono tutti, anche i non giornalisti, anzi numericamente soprattutto i non giornalisti, ma è altrettanto vero che i giornalisti hanno una deontologia professionale che li obbliga a un supplemento di verifica delle fonti prima di pubblicare notizie, giudizi, critiche e interpretazioni che possano ledere la dignità delle persone.
L’odio antisemita si scatena per gli impulsi irrefrenabili di chi è accecato dall’ideologia e usa la parola violenta come una clava, per cui è importante che i giornalisti non lo enfatizzino con leggerezze, omissioni, distrazioni.
Le loro carte deontologiche sono molto chiare nel richiamare il valore dell’uguaglianza, che consiste nel trattare situazioni uguali in modo uguale, senza discriminazioni. E’ il caso del codice deontologico del 1998 sulla privacy e il diritto di cronaca. Anche il Testo unico dei doveri del giornalista obbliga chi fa informazione ad essere sobrio ed essenziale nei contenuti e nel linguaggio e a combattere il linguaggio d’odio, che travalica i confini del diritto di critica. E la Carta di Roma, prodotta dai giornalisti nel 2008 e rinnovata nel 2018, introduce proprio un glossario per impedire di commettere errori. I giornalisti devono usare un linguaggio sobrio e rispettoso della dignità altrui. Basta un occhiello, un sommario fuorviante e tendenzioso per generare odio razziale o etnico.
Il fatto che anche i colossi del web stiano decidendo di collaborare attivamente per contrastare i contenuti fake e lesivi della dignità delle persone è una buona notizia. I giornalisti non sono soli nella battaglia per una Rete più solidale, inclusiva e al servizio dell’uomo.