Cercare, scegliere, assumere: il mondo del lavoro è cambiato. L’intelligenza artificiale ha già modificato in profondità il modo in cui le aziende reclutano nuovi talenti.
Oggi esistono sistemi capaci di analizzare migliaia di curricula in pochi secondi, riconoscere pattern, selezionare soft skill, valutare persino espressioni facciali e tono di voce. Dall’ATS “intelligente” ai chatbot come Mya e Olivia, fino alle video-interviste con analisi comportamentale, il recruiting si fa sempre più data-driven.
Ma c’è un rischio concreto: che nel trasformare l’efficienza in regola, si perda l’eccezione. Quella che spesso fa la differenza.
L’intelligenza artificiale non dovrebbe sostituire i recruiter. Il punto è proprio questo: aiuta, ma non decide. Perché la cultura aziendale, le motivazioni personali, il potenziale nascosto, non sono elementi facilmente misurabili. E senza il fattore umano, la selezione rischia di diventare una routine senz’anima.
Affidarsi ciecamente agli algoritmi può anche voler dire ripetere errori del passato. I dati storici su cui si addestrano le AI portano con sé i pregiudizi del contesto in cui sono nati. Se un’azienda ha assunto solo uomini in ruoli tecnici, il sistema tenderà a preferire candidati maschi, ignorando competenze e potenziale femminile.
Per le PMI che vogliono iniziare, la chiave è l’equilibrio. Si può partire automatizzando fasi ripetitive (screening CV, pianificazione interviste), formando il team HR non solo sull’uso degli strumenti ma anche sull’etica dell’AI e mantenendo sempre il tocco umano come perno del processo.
Il recruiting del futuro non sarà più né solo artigianato umano né sola automatizzazione industriale. Sarà una collaborazione. E chi saprà integrarla senza perdere il senso del mestiere potrà trasformare ogni selezione in una scelta consapevole e strategica.
A.C.
Diritto dell’informazione
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