I mesi passati hanno riportato nel cono di luce dei media la questione della Scuola, delle sue strutture, dei suoi modelli didattici e, più ampiamente, educativi, del ruolo centrale delle famiglie per il successo del patto formativo. Molto meno si è parlato di Università. Eppure per gli Atenei italiani la pandemia ha rappresentato un banco di prova importante per valutare l’efficacia delle tre missioni a cui sono chiamati: la formazione, la ricerca e la cosiddetta Terza Missione, ovvero quell’insieme di attività che vedono gli Atenei impegnati a far uscire le conoscenze dalle proprie stanze, dai laboratori, dagli archivi, e a trasformarle in risorse per la società.
La pandemia ha avuto impatti diversi su queste tre missioni: in molti casi ha impresso un’accelerazione a processi già in corso – pensiamo all’introduzione della didattica aumentata digitalmente o alla smaterializzazione delle procedure amministrative; in altri ha determinato una battuta d’arresto – per esempio per buona parte delle ricerche basate su fonti primarie e di archivio; in altri ancora ha avviato un percorso di cambiamento che se ben guidato può portare a migliorare il sistema universitario nel suo complesso, anche per quanto attiene criticità di lunga data.
Fra le iniziative a cui pensare per la ripresa, per quanto attiene la formazione certamente la costruzione di modelli didattici integrati, che sappiano combinare in modo efficace strumenti digitali e non, e le molte forme attraverso le quali passa oggi la formazione universitaria: lectio, casi di studio, testimonianze, progetti con aziende, workshop e seminari, esperienze di design thinking, oltre all’insieme delle attività finalizzate a far crescere le competenze soft e trasversali, a valorizzare il talento e ad assicurare il migliore posizionamento nel mercato del lavoro. E’ un intervento che richiede tutto sommato poche risorse e che può migliorare significativamente l’azione formativa e il suo allineamento con le esigenze espresse dal Paese e dalle imprese.
Sul versante della ricerca la pandemia ha posto in primo piano l’esigenza di una reale condivisione dei saperi. Si tratta di varare interventi volti a promuove in modo energico la politica dell’open access, non solo per quanto attiene i risultati, ma anche per quanto attiene i dati della ricerca Questo tipo di politica consente, infatti, di ridurre gli errori, di capitalizzare gli investimenti, di valorizzare le sinergie, anche non pianificate, nazionali e internazionali. E’ un cambiamento di prospettiva importante, verso il quale l’Unione Europea spinge da tempo. Resta poi inteso che senza un opportuno finanziamento alla ricerca di base anche lavori innovativi e promettenti rischiano di fermarsi o di non esprimere a pieno il loro potenziale.
Infine la ripartenza chiede di ripensare il rapporto fra università e Paese, in una chiave che non sia né quella del servizio, né quella dell’isolamento, ma che assuma piuttosto la forma dell’alleanza per la conoscenza: fatta di ascolto e di confronto, di libertà di azione e di pensiero e soprattutto di rispetto reciproco. Si tratta di un cambiamento di passo, che sul versante dell’università significa stabilire relazioni ancora più strette con il territorio, trovare forme e linguaggi nuovi per comunicare e per comunicarsi, coinvolgere le imprese e le istituzioni nella propria progettualità, sia come soggetti destinatari delle attività di terza missione, sia come soggetti informati, tornare insomma ad essere centri propulsori di pensiero e di innovazione.
Mariagrazia Fanchi
Professore ordinario di Cinema, fotografia e televisione, direttore Almed (Alta scuola in Media, comunicazione e spettacolo) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano