In piena emergenza Coronavirus si ripropone, come già accaduto in precedenti situazioni critiche con forti rischi per la salute della popolazione, il dilemma riguardante i confini del diritto di cronaca. Fin dove può spingersi la narrazione dei fatti da parte del giornalista, senza compromettere altri valori giuridicamente protetti? E’ lecito raccontare tutti i dettagli relativi alle sofferenze fisiche oppure il cronista deve porsi dei limiti? E’ giusto documentare, con l’ausilio di foto o video, scene di dolore fisico e di disperazione emotiva?
Nelle convulse giornate che stiamo vivendo rischia di apparire marginale la discussione su questi aspetti relativi alla rappresentazione della realtà, poiché prevalgono di gran lunga le apprensioni per quanto sta accadendo e per l’evoluzione del contagio da virus. Il che è anche ragionevole.
Ma se sui social appaiono pressoché inevitabili lo straripamento lessicale, il cedimento alla morbosità e l’enfatizzazione del clamoroso, sui mezzi di informazione tradizionali ci si aspetterebbe maggiore accortezza.
Ecco perché in molti si sono comprensibilmente indignati di fronte a servizi radiotelevisivi realizzati in reparti di rianimazione e terapia intensiva di alcuni ospedali, con tanto di interviste a persone ricoverate in condizioni di sofferenza fisica e di affaticamento respiratorio dopo aver contratto il Covid-19.
Quale voleva presumibilmente essere la finalità di quei reportage? Anzitutto evidenziare l’appesantimento di molti reparti ospedalieri dedicati in modo pressoché esclusivo ai casi gravi di contagio e ormai prossimi al collasso, a seguito dell’alto numero di ricoveri. In secondo luogo, smentire il luogo comune di una patologia che starebbe colpendo esclusivamente persone anziane e con patologie pregresse. Dunque avvicinare il microfono alla bocca (o alla mascherina) di un paziente che parla dal letto di un ospedale e racconta la sua esperienza di contagiato integrerebbe un atteggiamento di impronta persuasoria, prima ancora che di natura informativa.
Ma se quest’ordine di valutazioni nelle scelte editoriali fosse esteso su ampia scala, il diritto di cronaca non avrebbe più freni inibitori. Con l’ambizione ibrida di fungere da coscienza critica nei confronti di atteggiamenti superficiali e minimalisti, che pure si stanno registrando in queste settimane, l’informazione finirebbe per arrogarsi il diritto di forzare la barriera, che invece dovrebbe risultare invalicabile, del rispetto della dignità umana.
Il bombardamento mediatico monotematico al quale siamo sottoposti da settimane ha già abbondantemente segnalato all’attenzione generale la drammaticità delle condizioni di alcuni reparti di terapia intensiva e ha già distillato particolari dettagliati, nei consueti “bollettini di guerra”, sull’età variegata delle vittime e dei contagiati.
Basterebbe questo per raggiungere il requisito della completezza della notizia, mentre risultano eccedenti ulteriori particolari, anche audiovisivi o fotografici, miranti a drammatizzare plasticamente l’attuale condizione degli infetti sottoposti a trattamento medico-ospedaliero.
C’è di mezzo la dignità umana, il primo e più importante diritto inviolabile tutelato dalla Costituzione italiana, che anche i giornalisti, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati a rispettare. La legge professionale dei giornalisti declina questo principio, chiarendo che il diritto insopprimibile di informazione e di critica può essere esercitato dal giornalista nel rispetto dei diritti dettati a tutela della personalità altrui. E tra questi c’è al primo posto la dignità dei protagonisti dei fatti. Inoltre, il vincolo per chi fa informazione professionale risulta rafforzato dalla dimensione dell’autodisciplina, formalizzata nelle numerose carte deontologiche e nel Testo unico dei doveri del giornalista, varato quattro anni fa, proprio per offrire una chiara e ben orientata bussola dei comportamenti virtuosi e responsabili nel quotidiano esercizio del diritto di cronaca.
Entrando più nello specifico delle regole deontologiche applicabili alle cronache riguardanti malati e soggetti in situazioni di sofferenza e di disagio, occorre richiamare il Codice che fin dal 1998 disciplina le condotte dei giornalisti in materia di privacy e, nel dettaglio, all’art.8, tutela il valore della dignità della persona come limite invalicabile all’esercizio del diritto di cronaca. Inoltre, all’art.10 si specifica che <il giornalista, nel far riferimento allo stato di salute di una determinata persona, identificata o identificabile, ne rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza e al decoro personale, specie nei casi di malattie gravi o terminali, e si astiene dal pubblicare dati analitici di interesse strettamente clinico> e che <la pubblicazione è ammessa nell’ambito del perseguimento dell’essenzialità dell’informazione e sempre nel rispetto della dignità della persona>. Senza sottacere il fatto che all’art.3 si equipara la privacy negli ospedali a quella (assoluta) del proprio domicilio.
L’applicazione del parametro dell’essenzialità dell’informazione, in casi così delicati come quelli dei degenti in reparti di rianimazione, traccia la linea di demarcazione tra l’autorevolezza professionale e la spettacolarizzazione sensazionalistica. Sovresporre attraverso i media i soggetti deboli, anche con il loro consenso, inquadrando volti, corpi e altri particolari descrittivi della loro agonia, equivale alla rinuncia a un giornalismo scrupoloso, equilibrato, solidale e pienamente rispettoso dei travagli delle persone.