Un cittadino, firmandosi con nome e cognome, si è servito di alcuni manifesti per accusare l’allora sindaco della propria città di non avere rispetto dei defunti. L’autore dei manifesti definiva l’amministrazione comunale mefistofelica, perché non si preoccupava dell’incuria in cui versava il cimitero ed era quindi «tesa a far sprofondare la città nell’inferno».
Secondo la Corte d’Appello non c’era stata nessuna diffamazione. I fatti rispondevano alla verità e l’accusa riguardava un problema di interesse collettivo, un contesto all’interno del quale le espressioni colorite rientravano nella critica politica. Inoltre, l’aggettivo mefistofelico era da intendersi rivolto all’intera amministrazione e non esclusivamente al primo cittadino, con il richiamo religioso giustificato dal fatto che ci si riferiva alla situazione del cimitero comunale. Quanto all’offesa del sentimento religioso, il sindaco (il ricorrente) «non aveva fornito la prova dell’incidenza del fattore religioso nella sua formazione culturale e personale».
La Cassazione, invece, ha accolto il ricorso. La Suprema corte si interroga su quale tipo di dimostrazione dovesse offrire la vittima in merito al suo credo, oltre al professarsi cattolico, e dichiara che «l’accostamento al diavolo costituisce un’affermazione che, solitamente, ha carattere offensivo anche a prescindere dalle convinzioni religiose di ciascuno». Non importa il sinonimo che viene usato per tale offesa, se il significato rimane lo stesso.