Secondo l’impostazione accusatoria, l’imputato, con reiterate ingiurie e minacce ed altre condotte offensive, aveva cagionato alla persona offesa un grave e perdurante stato d’ansia e avrebbe ingenerato nella medesima il fondato timore per la propria incolumità personale, costringendola ad alterare le proprie abitudini di vita. Aveva altresì offeso l’onore e la reputazione della ex compagna, impostando sul proprio profilo WhatsApp una fotografia che la raffigurava, accompagnata da una frase offensiva.
Avverso la sentenza della Corte di appello, l’imputato proponeva ricorso per cassazione a mezzo del proprio difensore.
Con un primo motivo, deduceva i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione al delitto di stalking (ex art. 612 bis c.p.).
La difesa evidenziava che aveva prodotto due CD – l’uno contenente dei file audio, l’altro alcune registrazioni di conversazioni telefoniche operate dall’imputato – dal cui contenuto emergeva che l’imputato aveva ricevuto continue minacce e insulti da parte dei familiari della persona offesa, che avevano costantemente ostacolato l’esercizio del diritto dell’uomo di vedere la propria figlia.
Si lamentava di come i precedenti giudici avevano completamente omesso di valutare tale materiale probatorio, il quale costituiva la prova che la condotta serbata dall’imputato era non altro che una mera reazione alle condotte della persona offesa e dei suoi familiari. Mancava pertanto l’elemento soggettivo sia del reato di stalking che di diffamazione.
Con un secondo motivo, deduceva i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 392 e 393 cod. pen.
L’imputato nel proprio ricorso sosteneva che il reato di stalking avrebbe dovuto essere “derubricato” in quello meno grave di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, atteso che il motivo determinante che aveva indotto l’imputato a commetterlo era legato all’esercizio del diritto di vedere e di visitare la propria figlia.
Con un terzo motivo, deduceva i vizi di motivazione e di erronea applicazione della legge penale, in relazione all’art. 595 cod. pen.
Rappresentava il legale dell’imputato che lo stesso era stato ritenuto responsabile del reato di diffamazione per aver divulgato, mediante pubblicazione sul proprio profilo WhatsApp, una fotografia della persona offesa, accompagnata da una frase offensiva. Tuttavia, l’imputato, in sede di interrogatorio di garanzia, aveva spiegato al Pubblico Ministero che, in verità, intendeva inviare tale foto alla ex compagna, ma per mero errore l’aveva caricata sul proprio profilo.
Tanto premesso, il ricorrente sosteneva che sarebbe insussistente il dolo necessario per l’integrazione della diffamazione, visto che l’imputato aveva commesso il fatto solo per mero errore.
Con un quarto e ultimo motivo, deduceva il vizio di motivazione in relazione all’art. 594 cod. pen. (ingiuria).
Sosteneva infatti che in ogni caso il fatto contestato come diffamazione doveva essere riqualificato nel reato di ingiuria, che, però, dal 2016 è stato abrogato.
La Corte di Cassazione si è pronunciata dichiarando il ricorso per cassazione inammissibile.
Il primo motivo è inammissibile.
Il clima di conflittualità tra imputato e la persona offesa, le aggressioni verbali dei familiari della persona offesa e gli ostacoli frapposti all’esercizio del diritto dell’imputato di visitare la figlia non giustificavano assolutamente le condotte violente, le minacce, le offese e i danneggiamenti commessi dall’imputato.
Tali condotte dell’uomo avevano causato nella vittima un grave stato d’ansia e di paura, che l’aveva costretta ad alterare le proprie abitudini di vita, non uscendo più di casa.
Si tratta infatti di una decisione invero in linea con la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale «la reciprocità dei comportamenti molesti non esclude la configurabilità del delitto di atti persecutori, incombendo, in tali ipotesi, sul giudice un più accurato onere di motivazione in ordine alla sussistenza dell’evento di danno, ossia dello stato d’ansia o di paura della presunta persona offesa, del suo effettivo timore per l’incolumità propria o di persone ad essa vicine o della necessità del mutamento delle abitudini di vita» (Sez. 5, n. 42643 del 24/06/2021, Rv. 282170).
Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.
Il reato di stalking ha un oggetto giuridico diverso da quello dell’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, dal quale si differenzia nettamente anche per l’abitualità della condotta e per la specificità dell’evento (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 20696 del 29/01/2016).
Nel caso in esame, avendo i giudici di merito ritenuto dimostrata la condotta abituale dell’imputato e lo specifico evento da essa causato, appare corretta la qualificazione giuridica del fatto nel delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.
Il terzo motivo è anch’esso inammissibile.
La Corte di appello aveva ritenuto inverosimile la ricostruzione dell’imputato, rilevando che la successiva rimozione della foto non privava di penale rilevanza il fatto e l’offesa già arrecata alla vittima.
Infine, anche il quarto motivo è manifestamente infondato.
Appare, infatti, corretta la qualificazione giuridica del fatto come diffamazione, atteso che tale reato si configura quando il messaggio può essere letto da più persone, anche se tra di esse vi è la persona offesa (cfr. Sez. 5, n. 18919 del 15/03/2016). Nel caso in esame, la divulgazione del messaggio offensivo risulta evidente, essendo il profilo accessibile quantomeno a tutti gli utenti di WhatsApp il cui contatto era inserito nella rubrica del telefono dell’imputato.
di Daniele Concavo – Avvocato del Foro di Milano con particolare esperienza nel mondo del Fitness e nella tutela della reputazione aziendale e personale. L’Avv. Concavo è Cultore della materia di Diritto dell’informazione, Diritto europeo dell’informazione e Regole della comunicazione d’impresa con il Professore Ruben Razzante all’Università Cattolica di Milano.