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Dopo la pandemia rischiamo la carestia. L’allarme degli industriali

by Redazione
25 Marzo 2020
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Dopo la pandemia rischiamo la carestia. L’allarme degli industriali
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Ci mancava solo lo scontro sociale per esacerbare gli animi già esasperati degli italiani. Nel braccio di ferro su divieti, categorie escluse e categorie incluse nella lista di quelle a obbligo serrata, gli industriali invitano il governo alla ragionevolezza mentre i sindacati riescono a minacciare lo sciopero anche in questa fase così delicata, sia pure per ragioni di tutela della salute.

Dall’emergenza economica all’economia di guerra il passo è breve. La chiusura prolungata delle industrie pone le premesse per una carestia post-pandemia. Portando alle estreme conseguenze il discorso, si potrebbe azzardare che i sopravvissuti al Coronavirus correranno seriamente il rischio di morire di fame. Chi ritiene esagerati questi scenari apocalittici evidentemente non ha preso visione di alcuni rapporti riservati contenenti proiezioni sugli effetti del blocco pressoché totale delle attività produttive stabilito dal governo a seguito dell’enorme diffusione del virus. A livello globale, l’Organizzazione internazionale del lavoro ha prefigurato uno scenario con 25 milioni di disoccupati in più in tutto il mondo.

A tentare di introdurre elementi di razionalità in una discussione sempre più “ideologica” e dominata dalla psicosi collettiva sono in queste ore gli imprenditori, molti dei quali stanno rischiando di contrarre il virus essendo costretti ad uscire di casa per assicurare i famosi servizi pubblici essenziali, da quelli medico-sanitari a quelli alimentari, da quelli relativi alla fornitura di gas e luce a quelli di trasporto.

Il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia non usa giri di parole: <Il 70% del settore produttivo chiuderà – spiega – Dobbiamo garantire che i prodotti arrivino in supermercati e farmacie ma da oggi dobbiamo considerare anche come far riaprire e riassorbire i lavoratori. Se il Pil è di 1800 miliardi all’anno, vuole dire che produciamo 150 miliardi al mese; se chiudiamo il 70% delle attività vuol dire che perdiamo 100 miliardi ogni trenta giorni. Abbiamo proposto di allargare il fondo di garanzia per dare liquidità di breve alle imprese, ne usciremo con più debito ma dovrà essere pagato a 30 anni come se fosse un debito di guerra, perché così è. Poi vedremo quanto dura. Se sono 15 giorni è un conto, se sono mesi un altro>.

Gli industriali non ci stanno a passare per untori, nel momento in cui la gente li accusa di voler tenere aperte attività non essenziali. A volte il concetto di essenzialità non è di immediata percezione. Ad esempio ci sono aziende del settore auto che producono valvole per respiratori. E questi ultimi, come ben sappiamo, sono decisivi per salvare vite umane. Altre aziende si stanno riconvertendo per produrre mascherine. Nessuno potrebbe mai considerare superfluo il sacrificio che i loro lavoratori stanno compiendo in queste ore.

Il Presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, ha portato l’esempio diretto della sua azienda, che opera nel settore biomedicale. <Noi produciamo prodotti anche per le terapie intensive –ha spiegato nei giorni scorsi in un’intervista- Bene, tra quindici giorni non potremo più produrli perché un nostro fornitore ha deciso di chiudere. Io non posso sostituire quel componente come voglio, servono le autorizzazioni. E questo per vale per tutte le filiere, per il farmaceutico come per l’alimentare. Se si interrompe la catena, il prodotto finale non c’è. E’ troppo semplice pretendere la chiusura delle imprese senza assumersi la responsabilità delle conseguenze>.

Se è vero, dunque, che la salute viene prima di tutto il resto, va anche messa in conto la possibilità, al quanto concreta, che moltissime imprese che chiuderanno in questi mesi non riapriranno più.

In questi giorni, peraltro, si segnalano esempi virtuosi di aziende che stanno dalla parte dei dipendenti e premiano i loro sforzi e altre aziende che un po’ ci marciano sul Covid-19 e prendono quasi la palla al balzo per fare tagli drastici di manodopera e per scaricare sui lavoratori le inevitabili perdite di questo periodo.

Il marchio Giovanni Rana, ad esempio, ha riconosciuto un aumento di stipendio del 25% e un ticket mensile straordinario di 400 euro per le spese di babysitting ai suoi dipendenti che stanno continuando ad andare a lavoro durante l’emergenza. Si tratta di <un piano straordinario di aumenti salariali del valore di due milioni di euro –si legge in una nota ufficiale dell’azienda- con speciale riconoscimento dell’impegno dei 700 dipendenti presenti nei cinque stabilimenti in Italia che stanno garantendo, anche in questo momento così difficile, la continuità negli approvvigionamenti alimentari>.

Meno edificanti gli esempi di Alcantara, che chiude stabilimenti per ragioni di sicurezza e non rinnova decine di contratti a tempo determinato, e di Amazon che, secondo le testimonianze di alcuni suoi dipendenti, starebbe proseguendo le attività senza le dovute precauzioni igienico-sanitarie e di sicurezza anti-Covid-19.

Tutta questa catastrofica situazione, destinata inevitabilmente a peggiorare con il probabile allungamento dei tempi dell’emergenza, dovrà essere affrontato con una terapia d’urto da parte dello Stato. Questo non vuol dire, come ha sottolineato lo stesso Presidente di Assolombarda, Carlo Bonomi, nazionalizzare tutto e creare un nuovo Iri, mortificando la creatività privata, che ha assicurato al nostro Paese decenni di crescita e benessere. Anzi, la sfida dovrà essere proprio quella di una valorizzazione del lavoro autonomo e delle iniziative imprenditoriali in tutti i settori, con uno Stato regolatore e non più oppressore, né sul piano fiscale né sul piano burocratico.

Tags: AlcantaraAmazonAssolombardaCarestiaCarlo BonomiConfindustriaEconomia di guerraGiovanni RanaVincenzo Boccia

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