Nei primi mesi della pandemia, a causa del lockdown, milioni di cittadini in Europa e in Italia hanno iniziato a lavorare in smart working. Tale modalità dovrebbe prevedere diverse condizioni lavorative, tra le quali la possibilità di scegliere tempi e spazio per la realizzazione del lavoro, mentre il telelavoro prevede semplicemente di svolgere da casa anziché in ufficio lo stesso lavoro, mantenendo orari standard.
Secondo i dati elaborati da Eurostat nel 2003, la prima nazione in Europa per percentuale di lavoratori tra i 15 e i 64 anni occupati in smart working era l’Austria, dove il 10,3% dei lavoratori lavorava con questa modalità. In seconda posizione, nello stesso anno, c’era la Francia con il 10%, mentre poco più sotto si trovava l’Irlanda con il 9,4%. L’Italia nel 2003 era fuori dalla top 15 delle nazioni europee: si fermava infatti al 3,4% di smart worker sul totale dei lavoratori.
Nel 2019, l’anno prima della diffusione in Europa del Covid-19, la situazione era decisamente cambiata. I Paesi con la più alta percentuale di persone al lavoro da casa erano Finlandia e Olanda, entrambe con un dato pari al 14,1%. In terza posizione c’era il Lussemburgo e, a seguire, Austria, Danimarca, Francia e Irlanda con il 7%. Anche nel 2019 l’Italia non era tra i primi 15 Paesi d’Europa e la sua percentuale era del 3,6%. In 16 anni la crescita dello smart working si era fermata a +0,2 punti percentuali.
Durante la pandemia e i diversi lockdown nei vari Paesi i dati hanno subìto una forte accelerazione. Nel 2020 in prima posizione troviamo nuovamente la Finlandia ma rispetto al 14,1% dell’anno precedente il dato è passato al 25,1%. In seconda posizione troviamo il Lussemburgo con il 23,1%, seguito dall’Irlanda con il 21,5%. Il nostro Paese è balzato in tredicesima posizione. La quota di lavoratrici e lavoratori in smart working nel 2020 è arrivata al 12,2% superando la Spagna (10,9%) e la Polonia (8,9%).
Ora veniamo a ciò che pensano i lavoratori riguardo allo smart working: dallo studio realizzato da Matrix42 in collaborazione con YouGov gli italiani sono fra i meno propensi rispetto allo svolgimento del lavoro da casa. La Spagna registra la percentuale più alta con il 59% di favorevoli, seguita da Regno Unito (57%), Stati Uniti (53%) e Francia (53%). Italia e Germania si collocano in fondo alla classifica rispettivamente con il 43% e il 33%. Ciò è dovuto soprattutto alla mancanza di prerequisiti tecnologici per impostare e implementare nuovi modelli di lavoro in modo sostenibile. Sono soprattutto gli intervistati dell’Europa centrale a ritenere che ci siano ancora troppe lacune in questo senso.
Anche il limitato scambio personale tra colleghi viene percepito come un ostacolo al diffondersi del telelavoro, specialmente negli Stati Uniti (62%). L’Italia, con il 40%, è il Paese europeo meno preoccupato da questa eventualità ma teme invece (70%) che il lavoro da remoto possa determinare una sovrapposizione tra lavoro e vita privata allineandosi al trend globale (67%). Anche i professionisti IT si mostrano scettici: oltre la metà degli intervistati (62%), ad esempio, si aspetta un carico di lavoro maggiore per la propria unità. Però il 55% di tutti gli intervistati e anche degli italiani afferma di poter bilanciare meglio famiglia e lavoro se può lavorare a distanza e dispone dell’attrezzatura adeguata.
Secondo un’indagine Eurofound nel futuro si avrà un modello ibrido che alternerà presenza e remoto, quindi una modalità ibrida, che però dovrà essere attuata solo dopo aver risolto alcune problematiche quali isolamento, allungamento degli orari, mancanza di attrezzatura adeguate, tutela della salute e sicurezza. Nel futuro inoltre, sempre più professioni e mansioni potranno essere svolte in modalità smart working.
Con la maggiore diffusione dello smart working si è affermata la figura del nomade digitale, che ora non comprende più soltanto i lavoratori che svolgono le professioni più creative e gli imprenditori, ma anche professionisti del marketing e della comunicazione, informatici e programmatori, ovvero chiunque sia in grado di svolgere online il proprio lavoro. Così gli Stati hanno iniziato a porre in vigore alcuni incentivi fiscali per queste figure.
L’Italia ha molto da offrire ai nomadi digitali del nord Europa, ma anche ai connazionali espatriati che stanno pensando di tornare. Da gennaio 2020 è in vigore un incentivo fiscale: chi ha vissuto fuori dall’Italia per due anni e trasferisce la residenza fiscale nel nostro paese, può godere per cinque anni di una quota di reddito esentasse del 70%, che arriva al 90 per cento per chi decide di vivere in regioni del centro-sud.
La Grecia ha introdotto un regime fiscale agevolato per chi trasferisce la propria residenza fiscale nel paese. Il dipendente che inizia un nuovo lavoro o il libero professionista pagherà le tasse solo sul 50% del reddito di fonte greca.
La Croazia ha creato un apposito permesso di soggiorno della durata di un anno, il “visto nomade digitale”, rivolto ai lavoratori extra Ue che lavorano nell’ambito della “tecnologia della comunicazione” come dipendenti da remoto o attraverso la propria attività all’estero. Il permesso si associa a un grande incentivo fiscale: per un anno non si pagano tasse, a patto di non lavorare per imprese croate e dimostrando di avere un reddito mensile di oltre 2mila euro.
La Spagna ha introdotto la “residencia no lucrativa”: possono richiedere questo visto i cittadini extracomunitari che vogliono vivere nel Paese con un reddito da lavoro o una pensione straniera. In questo caso bisogna dimostrare di avere entrate per almeno 26mila euro all’anno e l’attività lavorativa non deve essere legata alla Spagna.
L’Estonia consente ai dipendenti e ai liberi professionisti che possono svolgere da remoto il proprio lavoro, di chiedere un visto ad hoc per vivere un anno nel paese. Per ottenerlo è necessario dimostrare di aver avuto un reddito di almeno 3.500 euro nei sei mesi precedenti.
Una nuova meta per i nomadi digitali è Dubai poiché negli Emirati Arabi non esiste imposizione fiscale sui redditi delle persone fisiche. Qui è possibile fare richiesta per uno speciale visto che permette di rimanere nel paese per un anno e che offre accesso a linee telefoniche, servizi pubblici e scuole. Rimane il requisito dello stipendio, che deve essere di almeno 4.200 euro al mese. La Georgia punta invece sul basso costo della vita e sull’assenza di restrizioni anti Covid per attirare i lavoratori stranieri: dallo scorso agosto il visto consente di entrare nel paese e rimanerci per un anno anche a chi proviene da Stati considerati a rischio per la pandemia. Il governo si rivolge a dipendenti, freelance e imprenditori digitali che possono dimostrare un reddito di almeno 2.000 dollari al mese.
Barbados ha introdotto il visto “Barbados Welcome Stamp”, che costa 1.700 euro e che si può ottenere con un reddito annuale di almeno 42mila euro. Costa solo 220 euro fare domanda per il programma lanciato in agosto dalle Bermuda: il “Work from Bermuda Certificate” permette di vivere sull’isola come residenti per un anno ed è rivolto a lavoratori da remoto e studenti universitari. Le Mauritius hanno pensato a un visto che permette a turisti, pensionati e professionisti di rimanere nel paese per un anno, a condizione di potersi mantenere con una fonte di reddito esterna al paese.