La recente sentenza della Cassazione penale, sezione quinta, n. 8898 del 2021 ribadisce due importanti principi: il primo in tema della provocazione ex art. 599 c.p. (che costituisce una causa di non punibilità del reato di diffamazione) e il secondo in tema di diritto di critica, ai sensi dell’art. 51 c.p.
Il fatto oggetto di pronuncia riguardava le offese che due soggetti avevano pubblicato sul noto social network Facebook indirizzate ad un ciclista professionista, la cui unica colpa era quella di non aver partecipato ad una gara.
Secondo gli imputati il ciclista avrebbe tenuto vari comportamenti professionalmente scorretti, che avrebbero ‘’provocato’‘ lo stato d’ira di quest’ultimi, rendendo così lecite le gravi offese poi pubblicate sul social.
Ebbene sotto il primo profilo la Cassazione ha escluso la sussistenza della causa di non punibilità della provocazione alla luce di una interpretazione oggettiva del concetto di “fatto ingiusto”, precisando che il comportamento provocatorio costituente il fatto ingiusto, anche quando non integrante gli estremi di un illecito codificato, deve comunque potersi ritenere contrario alla civile convivenza secondo una valutazione oggettiva e non invece in forza della mera percezione negativa che del medesimo abbia avuto l’agente.
Secondo la Corte, pertanto, nel caso in esame non è dunque sufficiente per la sussistenza della presente causa di non punibilità che gli imputati, sotto un punto di vista meramente soggettivo, si siano sentiti provocati, atteso che oggettivamente nessun comportamento illecito o contrario alla civile convivenza è stato posto in essere dalla persona offesa.
Ad onor del vero il predetto principio di diritto veniva già sancito in precedenza in diverse pronunce della Suprema Corte: si veda Cassazione penale, sez. V, sentenza del 20-11-2019, n. 47041 oppure Cassazione penale sentenza n. 25421 del 18/03/2014.
Infine in relazione al secondo profilo attinente alla sussistenza del diritto di critica invocato dagli imputati, la Corte ha affermato l’autorevole principio secondo cui in tema di diffamazione, ai fini del riconoscimento dell’esimente del diritto di critica, qualora le frasi diffamatorie siano state formulate tramite “social network”, il giudice, nel valutare il requisito della continenza formale, deve tener conto non solo del tenore del linguaggio utilizzato, ma anche dell’eccentricità delle modalità di esercizio della critica, restando fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali di ogni persona, che devono ritenersi sempre travalicati quando la persona offesa, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al pubblico disprezzo.
In questo senso dunque la Cassazione ha escluso che, nel caso di specie, le affermazioni divulgate su Facebook dagli imputati potessero integrare un’ipotesi di lecito esercizio del diritto di critica, in quanto quest’ultimi non solo hanno pubblicato commenti “ad hominem” umilianti e ingiustificatamente aggressivi travalicanti il requisito della continenza formale, ma avrebbero potuto segnalare tale comportamento alle Autorità competenti (ossia al CONI o agli organi di giustizia sportiva), in luogo di diffondere le loro opinioni diffamatorie in un contesto comunicativo totalmente avulso dal contesto sociale in cui si sono generati i fatti, ovvero il settore sportivo.
Gli imputati, infatti, qualora avessero indirizzato le proprie critiche agli organi competenti, anziché denigrare pubblicamente il ciclista, avrebbero esercitato correttamente il proprio diritto di critica, garantito dall’art. 21 della Carta costituzionale e dall’art. 10 della Convenzione EDU.