Con la sentenza 37618/2023 del 14 settembre, la Corte di Cassazione ha stabilito che, contrariamente a quanto accade per siti Internet e social network, non è aggravata la diffamazione in chat.
Se le casistiche del web e di Facebook sono assimilabili a quelle della stampa, poiché l’espressione ingiuriosa può raggiungere un numero indefinito di persone, il gruppo WhatsApp è concepito per essere uno spazio di ritrovo digitale di un numero ristretto di individui che, inoltre, si ammettono vicendevolmente. Ne deriva che lo scambio di comunicazioni rimane comunque riservato, senza sfociare in una circolazione incontrollata come avviene invece sulle piattaforme social.
Per questo motivo, la Corte di Cassazione ha ribaltato una sentenza di primo grado, annullando la condanna di un luogotenente dei carabinieri accusato di aver inviato messaggi offensivi ad alcuni militari su un gruppo WhatsApp. La Corte ha ritenuto che l’aggravante del mezzo della pubblicità non fosse applicabile al caso in esame, in quanto i gruppi WhatsApp non sono equiparabili a mezzi di comunicazione di massa. Ad esempio, l’invio di un’email o la pubblicazione su un social media non possono essere paragonati a un messaggio in una chat privata come WhatsApp. Il principio, inoltre, si applica tanto ai militari quanto ai civili, poiché sul punto il Codice penale militare di pace ricalca la formulazione dell’articolo 595 del Codice penale.
S.F.