Mariagrazia Fanchi è Direttore dell’Alta Scuola in Media Comunicazione e Spettacolo (ALMED) dell’Università Cattolica ed è Professore Ordinario di Film Studies nell’ateneo di Largo Gemelli, dove coordina anche il Corso di Laurea Magistrale in Comunicazione per l’Impresa, i Media e le Organizzazioni Complesse (CIMO) e l’IMACS, International Master in Audiovisual and Cinema Studies.
Il suo campo di ricerca sono i processi sociali e storici di fruizione dei prodotti mediali, con attenzione al significato e ai valori che essi assumono per i diversi soggetti in diversi contesti e momenti. I suoi studi sono concentrati sull’analisi dei pubblici, in chiave storica e con attenzione al presente e al ruolo cruciale che le audience sono chiamate a ricoprire nelle industrie mediali, culturali e creative.
- Qual è il suo parere in merito all’evoluzione delle figure professionali della comunicazione negli ultimi anni e quali sono le sue previsioni per il futuro?
Il mercato del lavoro, nell’ambito delle professioni della comunicazione più che in altre, è attraversato da anni da processi trasformativi, determinati dai cambiamenti tecnologici, così come dal mutare delle condizioni politiche ed economiche, locali e globali. Su alcuni di questi processi la pandemia ha avuto un effetto accelerante: penso allo smart working, che nelle professioni della comunicazione è stato ampiamente sdoganato, complice le condizioni contrattuali che tendono a privilegiare il lavoro autonomo. Con riferimento alle competenze richieste, oltre alla scontata necessità di padroneggiare gli strumenti del mestiere (analitiche del web, suite per la creazione di contenuti, compresi i più avanzati che usano AI, oltre ai sempre necessari strumenti di organizzazione e analisi dei dati, a partire banalmente dai fogli excel) cresce la richiesta di competenze soft: capacità di organizzazione del lavoro e di gestione del tempo (tanto più se si lavora fuori da spazi convenzionali, come un ufficio), capacità di lavoro di gruppo, sguardo laterale e capacità di affrontare e risolvere problemi.
Pensando alla mappa delle professioni, le coordinate restano quelle di sempre: abilità e talento creativo, per un verso; capacità analitica, per un altro. Si distingue poi fra professioni strategiche, che richiedono dunque la gestione di una pluralità di variabili e di oggetti (ad esempio colui/colei che pianifica una campagna) e professioni ‘dedicate’ (ad esempio il content creator).
L’elemento nuovo, ma decisivo, è l’ininterrotto impegno nell’aggiornamento delle competenze, che viene richiesto alle professioniste e ai professionisti della comunicazione: è la sfida del “lifelong learning”, cioè appunto della formazione permanente.
- Cosa pensa delle professioni comunicative emergenti, come influencer e social media manager? Secondo lei sostituiranno quelle tradizionali o le affiancheranno modificandole e integrandole?
Terrei i due ruoli distinti.
Il social media manager è una professione che non esiterei a definire “classica”, sebbene le competenze specifiche richieste siano, come e più che per altri ruoli professionali, in permanente aggiornamento. L’affacciarsi di nuove piattaforme e, soprattutto, le evoluzioni degli habitat già esistenti (tese a rispondere alle esigenze degli utilizzatori e a reggere la pressione della competizione, evitando la perdita di utenti) determinano un riassortimento continuo delle tecnicalità che un comunicatore deve possedere per gestire questi spazi e i flussi comunicativi che li attraversano.
Il SMM lavora senz’altro in affiancamento con altri ruoli professionali, sia interni alle piattaforme (salvo il caso in cui non si chieda al SMM di creare anche i contenuti, ma si tratta di solito di funzioni differenti), sia esterni ad esse. Per esempio, il SMM difficilmente potrà sostituire il Media Relator, i campi di competenza si toccano, ma sono diversi; e così pure trovo difficile immaginare che un SMM sia anche un creatore di eventi: queste mansioni richiedono infatti competenze e, vorrei aggiungere anche, talenti differenti.
L’influencer non è necessariamente un professionista della comunicazione. Capita che gli influenzatori svolgano altre professioni e che per un complesso di fattori, che da qualche anno stiamo indagando nel progetto Opinion Leader 4 Future, di Università Cattolica e Credem, si trovino ad esercitare una funzione di orientamento in cerchie più o meno ampie e formalizzate.
Considerando l’influencer- professionista si tratta di un ruolo perfettamente inserito nei flussi comunicativi, come le ricerche hanno mostrato, e che può convivere serenamente con le istanze più tradizionali del marketing mix e con le sue professioni.
- Dopo il Covid, è come se ci sia stata una voglia di tornare a comunicare, esprimersi dal vivo. Questa tendenza quali ripercussioni avrà sulle figure professionali? Si tratta di qualcosa di passeggero in attesa di tornare alle comunicazioni prettamente online oppure no?
On- e offline avevano trovato prima dell’emergenza sanitaria dei bilanciamenti molto efficaci. Penso ai flash mob, eventi offline, attivati tipicamente attraverso il tamtam in rete; oppure a molte campagne, sviluppate su più canali (omnichannel), compresi i punti vendita.
Su questi bilanciamenti e combinazioni, il Covid è in effetti intervenuto generando uno smottamento a favore dell’online.
In questo momento mi pare si stiano cercando nuovi equilibri, che contemperino il permanere di un certo (sempre meno sentito invero) disagio alla condivisione di spazi con estranei, con il piacere dell’evento in presenza, con la sua complessità e ricchezza esperienziale.
- Se dovesse dare un consiglio ai più giovani, coloro i quali studiano o fanno i primi passi nel mondo delle professioni comunicative, su quale ramo della comunicazione consiglierebbe di puntare, considerando ovviamente la grande concorrenza presente in questo ambito?
Ci sono indubbiamente alcuni ambiti più scoperti, che stanno esprimendo in questo momento una domanda energica di professionalità. Si tratta specificamente della gestione del grande dato, che richiede competenze fortemente interdisciplinari. Voglio sgombrare il campo da un equivoco frequente: quello che viene richiesto per gestire il dato in ambito comunicativo non è una laurea in informatica, ma un plesso solido di competenze che consentano di interfacciarsi con chi ha la laurea in informatica: sapere che cosa chiedere, che cosa è possibile fare, e insieme avere ben presenti le implicazioni etiche, giuridiche, sociali dell’uso dei grandi dati nella gestione dei flussi comunicativi: dalla profilazione dei target, al corretto impiego e applicazione dei programmatic, e così via.
Detto questo, la richiesta di “comunicatori”, in grado di gestire il ventaglio ampio dei ruoli, dai creativi ai più strategici, dai generali agli specifici, non accenna a rallentare, ed è così da anni. Naturalmente i ruoli “di base” offrono più opportunità dei ruoli manageriali, ma questo è ovvio e vale per qualsiasi ambito lavorativo.
- Possiamo affermare di essere nell’era dei social network, ma da docente in materie di cinema e spettacolo pensa che questi due mondi torneranno ad avere un ruolo da protagonisti, anche sfruttando l’integrazione col mondo social?
Le screen industries sono in crescita, persino esplosiva. Il problema sono alcuni nodi della filiera-cinema che richiedono di essere significativamente ripensati. Penso alla sala e conseguentemente anche alla distribuzione. La sala non è più il mercato primario per l’opera filmica di fatto da oltre trent’anni – negli anni Novanta l’home entertainment in tutte le sue forme ha doppiato gli incassi theatrical – e ha superato crisi non meno gravi della presente. Sono convinta che i social media e persino le piattaforme, le cosiddette OTT, possano costituire per la sala un volano. La condizione perché questo connubio si dia e generi esiti positivi è che l’esercizio si sappia ripensare: che non punti sulle prime visioni, bensì sul proprio specifico: qualità dell’esperienza di visione, dimensione outdoor, socializzazione, etc. Il mercato è destinato a contrarsi, ma questo processo può essere governato e deve essere accompagnato da una rifunzionalizzazione del cinema, se non si vogliono produrre effetti rovinosi. La sala ha ancora molte frecce nella sua faretra: deve decidere in quale direzione puntare.