Entrambe le sentenze hanno affermato che il diritto a informare non giustifica la commissione di reati per procurarsi le informazioni. Un principio condivisibile, che però potrebbe estendere la responsabilità ai soggetti (anche media professionali) che organizzano piattaforme per ricevere segnalazioni anonime.
Partiamo dal caso portoghese. A inizio settembre il tribunale di Lisbona ha condannato a quattro anni di reclusione Rui Pinto, giudicato colpevole del reato di pirateria e tentata estorsione.
Nel 2016 l’hacker è illegalmente entrato in possesso di una serie di documenti che rivelavano operazioni finanziarie dubbie e casi di evasione fiscale milionaria da parte di alcune società del mondo del calcio. Inizialmente lo scopo di Pinto era quello di estorcere denaro a tali società, ma l’hacker ha in seguito deciso di inviare i leak (informazioni e dati “trapelati” su Internet) all’editor della rivista settimanale Der Spiegel. Questa, insieme agli altri importanti quotidiani e periodici europei componenti della European Investigative Collaborations, ha analizzato i dati per individuare le informazioni giornalisticamente rilevanti. L’hacker, divenuto ormai un collaboratore sia della giustizia che della stampa internazionale, eviterà il carcere grazie alla sospensione della pena. Durante il processo si era difeso sostenendo di essere un whistleblower che aveva agito “nel pubblico interesse”, ma il tribunale ha ritenuto “inconcepibile una riduzione della responsabilità penale in virtù di un presunto interesse pubblico […] Il diritto alla riservatezza delle comunicazioni prevale sul diritto di libertà di espressione […] Se non tutto è lecito per lo Stato, molto meno lo sarà per un qualunque cittadino”.
Due settimane prima della sentenza portoghese sui Football-Leaks, in Italia la quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto secondo il quale la scriminante dell’esercizio del diritto opera solo in relazione alla pubblicazione della notizia e non si estende ai modi utilizzati per acquisirla. La sentenza scaturisce da un procedimento che vede protagonista del caso un noto intervistatore che, dopo essersi indebitamente introdotto insieme al cameraman nello stabile in cui risiedeva la persona offesa, l’ha costretta “a tollerare la loro presenza con una serie insistente di domande alle quali, fin da subito, la persona offesa dichiarava di non voler rispondere”. L’intervistatore è stato condannato a due mesi di reclusione (convertiti in euro 15.000 di multa) e al risarcimento dei danni nei confronti della parte civile. Il caso italiano dimostra come un giornalista che pubblichi una notizia vera, acquisita in modo lecito e riferita correttamente, non commetta reato. Al contrario, se nel reperimento della notizia viene violata la legge, il giornalista non puo’ invocare a propria difesa il diritto di cronaca perché la tutela “copre” solo la scelta di pubblicare o meno l’articolo.
Entrambi i casi pongono delle questioni inerenti al giornalismo investigativo, al modo in cui le notizie vengono reperite.
La ripartizione delle responsabilità fra whistleblower e giornalista è chiara: per il momento è difficile ipotizzare una responsabilità di chi fa informazione nel momento in cui riutilizza in modo indipendente le informazioni critiche che sono state autonomamente diffuse da una terza parte. Le cose si complicano quando prendiamo in considerazione una piattaforma per la diffusione di leak gestita direttamente da una testata giornalistica; ricordiamo infatti che a Pinto non è stato riconosciuto lo status di whistleblower, perché l’hacker si è illecitamente procurato le informazioni prima di sapere cosa avrebbe trovato. Gestire una piattaforma che permetta la pubblicazione anonima di informazioni segrete potrebbe quindi portare alla ricezione di notizie che non si dovrebbero avere e alla percezione di un incentivo alla commissione di reati per procurarsi tali notizie. La piattaforma potrebbe essere ritenuta responsabile di istigazione a delinquere e concorso nel reato per dolo eventuale.
Una possibile difesa per una testata potrebbe venire da una selezione accurata delle notizie, limitando l’uso dei leak solo a fatti di una gravità tale da rendere evidente che il diritto ad informare non possa essere compresso. Questo significherebbe anche che tutte le informazioni acquisite in modo illecito e relative a fatti non clamorosamente importanti dovrebbero essere scartate. Se gli orientamenti suggeriti da queste due sentenze dovessero consolidarsi, sarebbe sufficiente una sola denuncia impostata su questi temi per mettere a rischio la sopravvivenza stessa di una testata.
La digitalizzazione ha reso molto più semplice acquisire e diffondere informazioni destinate a rimanere segrete. Potrebbe quindi essere opportuno stabilire un limite normativo all’utilizzo dei leak. La questione è complessa, è necessario prestare attenzione affinché uno strumento di garanzia non si traduca in uno strumento di censura.
M.M.