Il 4 novembre scorso è stato approvato il decreto legislativo volto a limitare la spettacolarizzazione dei processi mediatici aprendo nuovi scenari sul tema della presunzione d’innocenza: principio costituzionale già trattato in una direttiva europea come obbligo da recepire per poter ricevere i fondi del PNRR.
La presunzione di innocenza è un principio giuridico secondo il quale un imputato non è considerato colpevole sino a che non sia provato il contrario. Nella dottrina giuridica italiana il principio è declinato più propriamente come presunzione di non colpevolezza, perché il processo “è il mezzo mediante il quale alla presunzione d’innocenza si sostituisce quella di colpevolezza”.
La normativa viene tutelata e rafforzata con una normativa nazionale adottata in esecuzione di una recentissima Direttiva europea, non recepita fino ora ma che rientra tra gli obblighi per ottenere i fondi del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (PNRR). In particolare, il 4 novembre 2021 è stato introdotto il decreto legislativo che prevede che sia il solo Procuratore della Repubblica, preferibilmente tramite comunicati ufficiali e scritti, con facoltà di delega alla polizia di giustizia.
Con la Direttiva UE 16/343 del 9 marzo 2016, per via della forte esigenza di tutela dei dati e dell’immagine del cittadino europeo, gli organi europei hanno ritenuto necessario dettare una disciplina anche per quanto riguarda l’impossibilità di mostrare immagini ritraenti indagati o imputati in manetta.
Ma in generale gli atti del pubblico ministero dovranno limitare i riferimenti alla colpevolezza dell’indagato o dell’imputato, indicando cioè solo i presupposti, i requisiti o le altre condizioni necessarie all’adozione del provvedimento.
L’idea di fondo del progetto è quello di limitare al massimo le fonti delle gogne mediatiche, mediante l’inserimento del divieto di mostrare immagini ritraenti indagini o imputati in manetta.
In caso di accoglimento della richiesta, la rettifica andrà resa pubblica «con le medesime modalità della dichiarazione o, se ciò non è possibile, con modalità idonee a garantire il medesimo rilievo e grado di diffusione della dichiarazione oggetto di rettifica». Viceversa, in caso di rigetto o comunque di inerzia nell’assumere la decisione richiesta entro il termine, l’interessato potrà rivolgersi al tribunale affinché, sulla base del proverbiale articolo 700 del Codice di procedura civile, ordini all’autorità pubblica che ha trasgredito il divieto l’immediata pubblicazione della rettifica della dichiarazione.
Lo richiede all’autorità giudiziaria, che vedrà vagliare attentamente non solo il contenuto degli atti, ma anche il linguaggio utilizzato per integrare i requisiti minimi degli atti stessi. Le conferenze stampa vedranno, verosimilmente, una stretta: certamente il ruolo del procuratore capo, in questo ambito, viene rafforzato di molto. In caso di eccessiva mediatizzazione del processo, poi, potrebbero aprirsi nuove ipotesi di responsabilità a carico di polizia giudiziaria, magistrati e giornalisti; da non sottovalutare nemmeno le ipotesi di responsabilità disciplinare. Anche gli avvocati dovranno fare i conti con il nuovo paradigma: inviare notizie alla stampa sarà una pratica più rischiosa sul piano deontologico.
Molto rilevante, infine, la nuova modalità di esercizio del diritto all’oblio per le assoluzioni: la riforma della Giustizia Cartabia prevede, infatti, l’inserimento dell’articolo 154-ter delle disposizioni attuative del Codice di procedura penale, in virtù del quale i decreti di archiviazione, le sentenze di non luogo a procedere e le sentenze di assoluzione verranno trasmessi al Garante per la protezione dei dati personali e costituiranno “titolo per l’emissione senza indugio di un provvedimento di deindicizzazione dalla rete internet dei contenuti relativi al procedimento penale”.
La spettacolarizzazione dei processi è un fenomeno che interessa fasci di interessi diversi e, a volte, economicamente molto redditizi. In Italia l’impiego dell’informazione pubblica per fini di giustizia ha avuto padri nobili e finalità assolutamente condivisibili, come, ad esempio, la lotta culturale alla mafia negli anni Novanta. Va però detto che il fenomeno ha avuto anche manifestazioni meno moralmente accettabili, come nelle ipotesi di utilizzo politico della cronaca giudiziaria, a fini di propaganda politica in genere o per attacchi personali a singoli esponenti di questo o quel partito.
Si assiste ancora oggi alla spettacolarizzazione di processi penali in ipotesi di delitti di sangue: chi non è più giovanissimo ricorderà i telegiornali che per settimane hanno dato come notizia d’apertura lo stato delle indagini sulla morte di un bimbo in una nota località di montagna. Idem dicasi per alcune trasmissioni in cui si mostravano i plastici delle scene del delitto. Se l’informazione è uno strumento di cultura, è necessario un cambio di passo. Il quadro normativo che si sta delineando da alcuni anni a questa parte, fortunatamente, va nella direzione giusta.