La nuova direttiva sul copyright presenta indubbiamente un carattere innovativo e rivoluzionario, che ha finalmente aperto nuovi scenari giuridici su un tema complesso ed estremamente dibattuto come la tutela del diritto d’autore nell’ecosistema digitale: la normativa, statuendo che i produttori di contenuti audiovisivi e giornalistici operanti nel contesto europeo hanno adesso la possibilità di negoziare la loro remunerazione, rappresenta una concreta spinta verso il riconoscimento in capo ai produttori di creatività di garanzie e diritti sulle loro opere rispetto all’utilizzo che ne fanno le grandi multinazionali del digitale, come Google e Facebook, le quali sono ora soggette all’obbligo di pagamento per i contenuti diffusi sulle loro piattaforme.
La riforma costituisce un incentivo per i motori di ricerca e gli aggregatori di contenuti online a responsabilizzarsi sulla circolazione di servizi e contenuti prodotti da altri utenti e distribuiti in rete. Ciò determina senz’altro un ribaltamento dei rapporti di forza che fino a questo momento si erano mantenuti: non sono più i titolari dei diritti d’autore a richiedere il riconoscimento del proprio lavoro da parte dei colossi del web, ma sono le piattaforme stesse a doverlo garantire con accordi ad hoc.
La digitalizzazione ha, infatti, delineato un nuovo scenario globale contrassegnato da una vera e propria “mondializzazione” della cultura e della creatività che ha aperto non solo nuove opportunità, ma anche nuovi pericoli. Questi ultimi hanno dato corpo a un allarmante conflitto sociale. Da un lato le nuove tecnologie digitali rappresentano indubbiamente un potente stimolo per l’attività creativa, una fonte di innovazione, di creazione e di rapida circolazione dei prodotti frutto del lavoro intellettuale degli individui, attraverso il decentramento del controllo sulle informazioni e la democratizzazione dell’accesso al pubblico. Il significativo sviluppo delle reti di comunicazione elettronica ha, inoltre, portato i soggetti cardine dell’industria creativa tradizionale (produttore, distributore e fruitore) a sovrapporsi tra loro, spesso a confondersi, moltiplicando in questo modo le potenzialità creative di ciascun soggetto: è tipica di questa nuova società digitale la cosiddetta figura del prosumer, termine coniato dal sociologo americano Alvin Toffler nel 1980, che sta ad indicare un consumatore che è a sua volta produttore di contenuti creativi o che, nel momento stesso in cui fruisce di un contenuto, contribuisce alla sua produzione, ricoprendo così un ruolo sempre più attivo.
Dall’altro lato, tuttavia, le tecnologie sono anche mezzi insidiosi, in grado di rendere vulnerabili alcuni soggetti e al contempo di dotare di potere altri, come le grandi piattaforme di condivisone online, le quali hanno fondato da sempre il loro business sullo sfruttamento dei dati che gli utenti spontaneamente offrivano loro, grazie al controllo di buona parte del mercato pubblicitario che viaggia per via digitale, senza essere soggetti all’imposizione fiscale. Il mutamento tecnologico avviato con la comunicazione telematica non rappresenta, però, esclusivamente fonte di un accresciuto potere o causa di nuovi pericoli per gli individui. Esso trasforma e stravolge le loro relazioni con gli altri, siano esse di natura sociale, economica o culturale, generando nuove forme di conflitto fra le crescenti industrie dell’informazione, i cui profitti derivano per lo più da tali mezzi tecnologici, e gli individui ordinari, i cosiddetti “utenti finali”, che navigano e pubblicano contenuti in rete. Questo rappresenta il conflitto centrale dell’era digitale.
Alla luce di questa problematica, inevitabile era l’accendersi di un dibattito su come riequilibrare le diverse posizioni all’interno della nuova industria creativa 2.0, nell’ottica di garantire maggiore tutela agli interessi specifici dei creatori di prodotti culturali, lasciandosi alle spalle un approccio analogico a una materia così complessa come il diritto d’autore e aggiornando così una normativa comunitaria non più adeguata alla nuova realtà dei fatti, in cui Internet è diventato il primario mercato di sbocco per la distribuzione e l’accesso ai contenuti protetti da copyright.
Nonostante i numerosi aspetti controversi, oggetto di animate discussioni e accese polemiche all’interno del panorama politico e culturale, la direttiva 2019/790 ha dato una prima concreta risposta a una questione delicata su cui si è cercato da tempo di intervenire, ossia la responsabilizzazione degli Internet Service Providers nei casi di violazione del copyright. La scelta di attribuire un regime di responsabilità agli ISP comporta inevitabilmente la necessità di bilanciare istanze diverse: la libera iniziativa economica degli intermediari del web, le libertà di informazione e di manifestazione del pensiero, lo sviluppo culturale degli utenti e il diritto d’autore che, pur manifestandosi principalmente come un riconoscimento di diritti economici, nasce come incentivo allo produzione creativa di opere d’ingegno.
Questa riforma apre concretamente la strada verso una direzione opposta all’ideologia libertaria dei colossi della Silicon Valley, i quali hanno sempre rivendicato le piattaforme come uno spazio di libertà in cui può esprimersi tutta la ricchezza informativa e creativa della società moderna, senza che i gestori delle piattaforme fossero di fatto responsabili per i contenuti ospitati e l’uso dei dati degli utenti. Proprio in nome di questa ideologia è stata così costruita una realtà economica, sociale e politica priva di regole e responsabilità per i fornitori dei servizi online.
La nuova direttiva getta così per la prima volta a livello legislativo una luce su quel lato oscuro di un Internet senza regole, su cui già la giurisprudenza si è pronunciata in svariate occasioni, anticipando con i suoi orientamenti i principi che la normativa avrebbe successivamente recepito, a testimonianza delle difficoltà evidenti avute dagli esperti di diritto nell’individuare e definire il grado di responsabilità degli operatori della rete. Basti ricordare da ultimo la celebre sentenza 3512/2019, depositata il 15 febbraio 2019, con cui il Tribunale di Roma ha condannato Facebook, chiamato in giudizio da Mediaset, per violazione del diritto d’autore e diffamazione, riconoscendo l’illiceità della condotta del social network e condannandolo a rispondere delle sue responsabilità.
La fase dell’irresponsabilità delle piattaforme del web sembra, insomma, subire, con questa nuova direttiva sulla tutela della proprietà intellettuale nel mondo digitale, un’ulteriore battuta d’arresto, in un solco già tracciato dai precedenti provvedimenti adottati dall’Unione europea nel tentativo di disciplinare il mondo oltre lo schermo di piccoli e grandi monitor: prima è stata la volta del Regolamento in materia di protezione dei dati personali (il cosiddetto GDPR), poi della direttiva sulla sicurezza delle reti e delle informazioni, quindi del Codice di autoregolamentazione sulle fake news e infine la suddetta direttiva sul copyright. Così come il Regolamento sulla privacy (GDPR) è stato a suo tempo osteggiato e ora è un punto di riferimento nel mondo, è probabile che anche la neo riforma del copyright, oggetto di contestazioni e dibattiti accesi, assurgerà a modello ed esempio di legislazione in materia di tutela del diritto d’autore per altri Paesi extra europei.
La trasformazione riconducibile alla digitalizzazione dei contenuti ha costituito, insomma, uno snodo che ha pesantemente scosso il modello legislativo del diritto d’autore, facendo apparire inadeguati agli occhi dell’Unione europea i tradizionali paradigmi di tutela delle opere creative disegnati dalle normative precedenti.
La strada verso un assetto che permetta di garantire a pieno i benefici di cui godiamo grazie alla rete e di tutelare le nostre libertà è, tuttavia, lunga, specie in vista del recepimento dei principi formalizzati da questa direttiva da parte dei singoli Parlamenti nazionali, ma i progressi compiuti sono evidenti, su più livelli, non solo normativo, ma anche giurisprudenziale, dottrinale e deontologico.
Lo scenario prospettato dalla direttiva ha, tuttavia, portato molti ad interrogarsi su quali siano i rischi collaterali che potrebbero verificarsi con l’introduzione di una simile normativa, quali la limitazione della libertà di espressione e il pericolo di una vera e propria censura del web da parte degli stessi colossi digitali che si intende responsabilizzare: le riserve avanzate dagli oppositori del provvedimento aprono nuovi quesiti in ordine alla regolamentazione giuridica della creatività, quali, ad esempio, se e in che misura essa rappresenti un vantaggio per la collettività e quando essa, invece, si trasformi in un impedimento in grado di rendere eccessivamente difficoltosa la produzione culturale. Ma il web si mostra in costante evoluzione e risulterebbe controproducente rimanere ancorati a tipologie legislative ormai obsolete e superate solo per mantenere saldo il principio dell’intoccabilità della rete.
Il web del futuro presenterà notevoli novità, perché le forze che oggi lo governano “realmente” non sono più quelle libertarie e volontaristiche del passato. Di questo sarebbe opportuno prendessero atto tutti, in quanto non basta guardare il singolo provvedimento ma il disegno generale: il potenziamento normativo deve essere accompagnato anche e soprattutto dal consolidamento dell’autodisciplina da parte degli utenti stessi che fruiscono e caricano i loro contenuti su Internet. La rete è una ricchezza, una miniera di opportunità, uno strumento di crescita, ma è altresì una fonte di rischi per l’identità digitale di ciascun individuo che ne fa uso. L’innovazione tecnologica non accenna ad arrestarsi e bisogna, pertanto, fare in modo che tutti gli investimenti realizzati in rete vengano valorizzati nella loro essenza.