Nell’era digitale comunicare è diventato sempre più semplice e veloce: una notizia pubblicata sul web, un post su un social network o un commento inappropriato su una chat di gruppo sono in grado di raggiungere un numero imprecisato di persone.
L’enorme effetto di “cassa di risonanza” delle informazioni pubblicate sul web, spesso a prescindere dalla loro effettiva veridicità, può risultare alquanto pericoloso ogniqualvolta l’oggetto del messaggio diffuso abbia carattere denigratorio ed infamante nei confronti del suo destinatario.
In questo caso, il reato di diffamazione è previsto e punito nel codice penale all’art. 595, collocato tra i delitti contro la persona, infatti la condotta penalmente rilevante consiste nell’offendere l’altrui reputazione, di un soggetto non presente comunicando con più persone.
Nei commi successivi dell’art. 595 c.p. vengono introdotte le cosiddette aggravanti speciali, ovvero condotte che aggravano la fattispecie prevedendo un aumento di pena: la prima aggravante consiste nell’attribuire ad una persona un fatto determinato; la seconda consiste nell’arrecare l’offesa col mezzo della stampa, o con qualsiasi mezzo di pubblicità.
Quando si fa riferimento a casi di diffamazione online, generalmente è necessario che il commento denigratorio venga “pubblicato” in una chat di gruppo, ovvero in un gruppo WhatsApp in cui all’interno vi siamo almeno due persone oltre colui che pubblica l’offesa e l’offeso stesso.
Il commento deve essere inoltre pubblicato in un momento in cui l’offeso risulta disconnesso, perché nel caso in cui ricevesse l’offesa nell’immediato si tratterebbe di ingiuria e non di diffamazione.
In relazione al caso sopracitato la Corte di Cassazione ha stabilito che, contrariamente a quanto accade per siti Internet e social network, non è aggravata la diffamazione in chat: il gruppo WhatsApp è infatti concepito per essere uno spazio di ritrovo digitale di un numero ristretto di individui che, inoltre, si ammettono vicendevolmente.
In merito a casi di diffamazione su gruppi WhatsApp risultano molteplici le pronunce della Corte di Cassazione. La sentenza n. 31898/2023 della prima sezione penale della Cassazione ha accolto sul punto il ricorso dell’imputato con le seguenti motivazioni: “Può scattare la particolare tenuità del fatto se la diffamazione nei confronti di alcuni graduati da parte di un militare è avvenuta su una chat WhatsApp con pochi iscritti”.
Nel caso di specie, i Giudici militari del doppio grado di merito avevano ritenuto l’imputato Ufficiale dei Carabinieri, colpevole del reato di diffamazione in quanto autore di messaggi che, utilizzando epiteti volgari e spregiativi, erano stati ritenuti lesivi dell’onore di altri ufficiali dell’Arma non partecipanti alla chat in parola, epiteti che, nel contesto dei rapporti esistenti con le persone coinvolte, non potevano essere letti come espressione di un tono scherzoso accettato dai soggetti destinatari delle offese.
In merito il Collegio del diritto ha accolto il ricorso dell’imputato annullando con rinvio per nuovo giudizio.
Le sentenze in merito, infatti hanno evidenziato sia il fatto che fra gli utenti della chat vi erano anche non graduati, nei cui confronti vi era una maggiore esigenza di correttezza nei rapporti personali ed istituzionali, sia il fatto del limitato numero degli utenti della chat e la non particolare diffusione delle offese.
L’invio di un’email o la pubblicazione su un social media non possono essere paragonati a un messaggio in una chat privata come WhatsApp. Il principio, inoltre, si applica tanto ai militari quanto ai civili, poiché sul punto il Codice penale militare di pace ricalca la formulazione dell’articolo 595 del Codice penale.
C.L.